Matteo cosignani

Approccio in psicoterapia

Quando viene chiesto a un terapeuta quale sia il suo approccio, si entra inevitabilmente in un terreno complesso.

Le categorie tradizionali – cognitivo-comportamentale, sistemico, psicodinamico, strategico – sono utili per orientarsi, ma spesso non riescono a rappresentare la ricchezza del lavoro clinico reale. Nel corso della formazione professionale è normale attraversare più modelli: ciascuno offre strumenti, concetti, cornici di riferimento, e tutti contribuiscono a costruire una competenza più ampia.

Nel mio caso, ciò che guida realmente la pratica non è l’adesione a un “approccio” in senso scolastico, ma l’incontro con gli autori, con i colleghi e con le persone che nel tempo ho avuto modo di conoscere e studiare. È un sapere che nasce dai testi, dal confronto clinico, dall’osservazione dei processi terapeutici, e che continua a evolversi giorno dopo giorno.

Molte delle prospettive che hanno influenzato la psicoterapia contemporanea – la Psicologia del Sé, la Psicoanalisi Relazionale, le teorie intersoggettive e l’Infant Research – hanno proposto un’idea di mente come sistema complesso, dinamico, profondamente legato alle relazioni. In questa tradizione si collocano autori come Bromberg, Mitchell, Kohut, Benjamin, Renick, Ringstrom, Bowlby, Winnicott, Ogden, Bollas: pensatori che hanno mostrato come l’esperienza emotiva, la storia affettiva e il contesto relazionale siano elementi inseparabili del modo in cui una persona vive, soffre e cambia.

Questa visione introduce un principio cruciale: l’individuo non è mai isolato, ma non è nemmeno completamente “aperto” o dissolto nel mondo. È un sistema di relazioni interne ed esterne, un intreccio tra storia personale, legami significativi, capacità di connessione e possibilità di trasformazione. Lo stesso vale per la coppia: non è semplicemente la somma di due individui, ma una relazione che vive dentro altre relazioni, altre storie, altri equilibri.

È anche per questo che ritengo riduttiva l’idea di definire il lavoro clinico in termini di “mi occupo dell’individuo” o “mi occupo della coppia”. Qualunque percorso, individuale o di coppia, porta inevitabilmente a lavorare su più piani contemporaneamente. Le persone non portano mai un solo tema: un sintomo, una difficoltà, un disagio sono solo la superficie di una storia più complessa che coinvolge relazioni, scelte, contesti, traiettorie emotive.

All’interno di questa cornice, un riferimento particolarmente importante per il mio modo di lavorare è il pensiero di Yalom, che pone al centro lo sviluppo di competenze reali: la capacità di stare con l’altro, di costruire legami significativi, di vivere in una comunità senza perdere sé stessi. È una prospettiva concreta, che collega la psicoterapia alla vita quotidiana e non la chiude in un quadro puramente teorico.

Per queste ragioni, il mio modo di lavorare non può essere definito da un’unica etichetta. È un approccio integrato, relazionale, flessibile, che si struttura sulla base dell’incontro con la persona e della complessità della sua storia. Ogni intervento nasce dall’ascolto, dall’osservazione, dal confronto tra ciò che la persona porta e ciò che la teoria – quella studiata nei libri, quella osservata nei colleghi, quella appresa nell’esperienza clinica – suggerisce.

La psicoterapia, così intesa, è un processo vivo. Un lavoro che richiede studio continuo, capacità di rivedersi e di mettere in discussione le proprie certezze, disponibilità a imparare da ogni incontro. È un percorso che non ha un punto di arrivo definitivo, perché la mente umana è troppo ricca e in movimento per permettere conclusioni rigide o identità professionali troppo strette.